Ma è responsabilità di Cambridge Analytica se gli utenti di Facebook – ad ogni ora – postano sui social i video porno del mese, il piatto del giorno (non a caso detto foodporn), il titolo del libro sul comodino, l’ultimo acquisto effettuato nell’e-commerce, il nome del partito preferito alle elezioni, l’orientamento sessuale della cognata? No.
Siamo noi utenti a regalare ai social media tutti i dati, anche i più sensibili, siamo noi a disseminare la Rete delle nostre impronte, come se fossimo i nuovi Pollicino che spargono le briciole sul sentiero di casa, pur sapendo che questi dati verranno sfruttati, all’osso, per le profilazioni personali e per l’advertising mirato.
Siamo noi ad aprire le porte a Cambridge Analytica (e all’italiana Casaleggio Associati) e lo facciamo fregandocene della nostra privacy, forse perché abbiamo capito che – nell’era delle carte fedeltà al supermercato, delle onnipresenti videocamere, degli smartphone sempre accesi e geo-localizzati, dei tag costantemente in agguato – abbiamo già alzato bandiera bianca: viviamo al tempo della Zero Privacy.
Difendere la riservatezza è una battaglia persa, perché chi l’avrebbe dovuta difendere (noi, cioè l’utente finale) è stato il primo a spalancare la porta di casa alla Cambridge Analytica di turno, felice di aver guadagnato il quarto d’ora di celebrità nell’era dei social. Il resto è cronaca. Mettere in croce Facebook o Twitter (entrambe in declino a Wall Street, dopo lo scandalo di Cambridge Analytica), fa quasi sorridere.