Un fantasma si aggira nel mondo globale ed è la psicosi da Coronavirus (319 casi in 24 Paesi, Cina esclusa, dove conta già 910 morti, più della Sars, che però registrava un tasso di mortalità inferiore). Soprattutto che il coronavirus avrebbe un tempo di incubazione NON di 14 giorni, bensì di 24 giorni. E in questa fase il principio di precauzione è l’unico da osservare con rigore. Ma tutto ciò ha un costo, e non solo umano, come dimostra la doppia morte del dottor Li Wenliang, ucciso dal coronavirus cotratto da un paziente e prima dalla censura per aver dato l’allarme all’inizio dell’epidemia.
Oggi si è svolto il convegno di Anitec-Assinform “Digitale per Crescere – Innovazione, Crescita, Trasformazione”, focalizzato sul ruolo strategico dell’innovazione (“inesorabile” l’ha definita Giancarlo Capitani), soprattutto nell’era dei Digital Enabler: Cloud computing, Internet delle cose (IoT), Mobile, opportunità di sviluppo e occasione per superare il divario digitale ancora presente nel Paese e soprattutto nella Pubblica Amministrazione (PA) da rendere efficiente e moderna, a disposizione del Cittadino Digitale di oggi. Partiamo dai numeri: dal rapporto Anitec-Assinform 2019 emerge che il mercato digitale italiano – informatica (IT), Tlc, contenuti digitali ed elettronica di consumo – cresce indipendentemente dal Pil e registrerà nel triennio 2019-2021 un incremento del 2,8% (+2,5% a 72,22 miliardi di euro nel 2019, +2,8% a 74,25 miliardi nel 2020 e +3,1% a 76,54 miliardi nel 2021), ma il potenziale è ancora in gran parte inespresso, secondo il Presidente Marco Gay, visto che dal 2015 la forbice fra crescita del mercato e quella del PIL si è fortemente allargata, e dunque si può fare molto di più, soprattutto affinché la crescita del digitale abbia impatto sull’economia nazionale. Gli investimenti del futuro devono essere digitali, basta pensare alla reintroduzione di Industria 4.0: non ci sono alternative. Tuttavia i nodi stanno venendo al pettine e vanno affrontati con grande serietà per dare una mano al Sistema Paese, da troppi trimestri in stagnazione.
L’Italia arranca in tema di istruzione e ciò frena enormente la crescita del Paese. Il ritardo italiano è stato fotografato dall’ultimo rapporto OECD (l’organizzazione nota in Italia come OCSE), intitolato “Education at a glance”, ma in questi giorni èBoston Consulting Group (BCG) a lanciare l’allarme.
Il report annuale dell’OCSE inchioda l’Italia a uno storico divario: solo il 18,7% degli italiani è laureato, contro il 33% degli altri Paesi, l’Italia è fanalino di coda in Europa. Con 27 giovani nella fascia d’età di 25/34 anni su cento in possesso di laurea (erano 19 su 100 nel 2007, dieci anni prima), contro una media OCSE del 44%, l’Italia è penultima, superata in questa poco invidiabile classifica soltanto dal Messico, anche perché lavora la percentuale di laureati tra le più basse al mondo, quota che langue all’81%. Significa che in Italia la laurea offre meno lavoro di un’istruzione tecnica. La discriminante è l’avere almeno un genitore laureato: l’accesso all’Università sembra un fatto ereditario, l’opposto dell’ascensore sociale. Anche la media Ocse di chi studia e si aggiorna anche in età adulta è il doppio di quella italiana (al 25%).
Ci sono gli evergreen. I corsi e ricorsi, gli eterni ritorni di fiamma. Nel recente passato sul tema della WebTax, oggi sulla riforma UE del copyright. Tutti allineati sulle posizioni della Fieg, tutti impettiti a difendere i vecchi (sempre più obsoleti) arnesi della carta stampata. Ancora una volta l’Italia sceglie la scorciatoia dell’arroccamento del copyright contro le opportunità del digitale. Anche quando difende istanze (in parte) giuste (aiutare i creatori di contenuti a monetizzare il loro lavoro, senza finire stritolati dalle Big IT, i colossi delle piattaforme Web che tutto fagocitano diventando monopolisti de facto, come i Padroni delle Ferriere dell’800), sembra che l’Italia sogni di chiudersi in una fortezza luddista da Piccolo Mondo Antico. Il Belpaese non vota da posizioni di forza come la Germania, ma da posizioni di fragilità e debolezza, sposando modelli anti produttività e anti competitività.
Il volume delle vendite via mobile commerce (m-commerce) è destinato a raddoppiare dal 2017 al 2020, secondo eMarketer. Secondo l’Osservatorio Big Data Analytics & Business Intelligence della School Management del Politecnico di Milano, è in pieno boom il mercato dei Big data analytics ha registrato un incremento del 14% a quota 790 milioni di dollari, spinto da assicurazioni, banche, telco e media, che corrono con tassi tra il 15% ed il 25% (seguiti da utility, Gdo, servizi). A trainare sono i Big Data, seppure i volumi siano ancora contenuti: hanno messo a segno una crescita annua del +34%.
Fatte queste premesse, non stupisce che big data, e-commerce e startup contamineranno le PMI italiane. I big data (39%), le startup (39%) e le vendite online (37%) sono i settori in cui investiranno di più le PMI tricolori nell’arco dei prossimi 3 anni. Lo riporta un’indagine condotta su quasi 550 aziende da TAG Innovation School, Cisco Italia e Intesa Sanpaolo, grazie ai ricercatori del Master in Digital Transformation per il Made in Italy.
Nei prossimi 3 anni le figure professionali più gettonate saranno: esperti di strategie di marketing digitale (Digital Marketing Specialist, 60%), specialisti nell’analisi di dati (Data Analyst, 50%), consulenti per l’attuazione della Digital transformation (Digital Officer, 32%) e sviluppatori di soluzioni mobile (Mobile Developer, 31%). La Digital Transformation viene valutata per le opportunità che offre di migliorare la relazione con i clienti (80%) e l’organizzazione interna (74%).
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